La critica di E. P. Pavolini
“Io non mi sarei curato di rispondere alla critica acerba e tos-canina del Pavolini, essendo oramai passato molto tempo, da che è comparso il suo articolo nel Giornale Asiatico: ma ci sono stato costretto a causa del suo carteggio confidenziale, con cui mi va denigrando presso tutti quelli che nutrono verso di me qualche po’ di stima e mi conoscono come un serio cultore di orientalismo”, così Emilio Bartoli inizia il suo scritto, motivato dalla polemica sorta in seguito alla pubblicazione da parte di quest’ultimo della traduzione della Suktavali di Lakshmana, il cui manoscritto è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, e che già in precedenza era stato parzialmente edito da Paolo Emilio Pavolini, impegnato, secondo l’autore dello scritto, a «far credere che le 63 strofe da lui pubblicate sono tutte nove di zecca, mentre ce ne son alcune, che potrebbero figurare al Museo d’Antichità di Napoli». Obiettivo dichiarato di Bartoli è quindi quello di dimostrare «che il prof. Pavolini come paleografo e critico non ha un gran valore, e come sanscritista non è neppur lui impeccabile», attraverso l’analisi del testo di Lakshmana confrontato con l’edizione di Pavolini. Efficace nell’esposizione, Emilio Bartoli, il cui destino è stato dimenticato, mancava forse di considerare la posizione di vantaggio dell’orientalista fiorentino, che in anni immediatamente precedenti era stato protagonista di un’accesissima polemica con Francesco Lorenzo Pullè e che successivamente godette, negli anni del regime fascista, di grande potere, grazie agli incarichi assunti dai figli. Il saggio di Bartoli si compone di due parti che vale la pena di leggere per conoscere, non soltanto la natura della polemica, ma soprattutto l’evolversi degli studi linguistici di carattere indologico in Italia.
Tipografia Cimmaruta della R. Università
Napoli (1916)